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L’età del (pre)giudizio

27 novembre 2017 Lascia un commento

A che età iniziamo a stupirci di una donna o di una persona di colore al comando? Quando decidiamo quale professione e ruolo sono “normali” per qualcuno? L’età cosiddetta del giudizio, cioè l’età adulta, coincide con l’età del pregiudizio. A partire da 6 anni iniziamo ad accumulare convincimenti che diventano pregiudizi, si stratificano e ci limitano. Prima invece riuscivamo a vedere un mondo dove nulla era precluso a nessuno e tutto era “naturale”.

Prysmian, azienda leader nei cavi e nei sistemi per energia e telecomunicazioni, ha prodotto un bel video che fa riflettere. Vengono mostrate le stesse immagini, prima a un gruppo si adulti (dipendenti di Prysmian) e poi a un gruppo di bambini in età pre-scolare (figli di alcuni dipendenti). Le immagini sono di Samantha Cristoforetti nella navicella spaziale, di una donna al volante di una Ferrari, di due piloti nel cockpit di un aereo (una donna e un uomo di colore), di  gruppi di persone in riunione  di lavoro (nella prima riunione uno di loro, visibilmente più anziano, è Richard Branson, l’imprenditore che ha fondato Virgin Group, nella seconda c’è solo un uomo e le altre sono donne). Agli adulti le immagini appaiono evidentemente “insolite” e sottolineano l’aspetto di “deviazione rispetto alla norma” (una donna astronauta, una donna pilota, una riunione in cui una persona è molto più vecchia, una riunione in cui le donne superano numericamente gli uomini, ecc.). I bambini no. I bambini sono fattuali: Samantha Cristoforetti è un’astronauta. Non è una donna astronauta, ma un essere umano che fa l’astronauta di professione. I piloti di auto da corsa o di aerei sono semplicemente piloti. Le persone riunite sono persone che lavorano, età e genere non importano.

Viene voglia di tornare bambini anche per questa capacità di vedere il mondo senza filtri e costrizioni. Ma in questo video c’è anche un suggerimento importante per le donne leader, o che vogliono diventarlo. A volte le donne si fanno assalire da dubbi (“ce la farò come donna?”, sono l’unica/prima donna, forse vuol dire che non è possibile”, ecc.) perché subiscono loro stesse i condizionamenti sociali. Ecco, in quei momenti, fate come i bambini. Guardate al mondo delle possibilità infinite, non quello quello dei pregiudizi. Prima che ci mettessero il paraocchi, vedevamo una realtà più ampia. Ce lo ricordano i bambini in questo video, che siamo noi, tanti anni fa.

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Il fallimento che aiuta a trovare se stessi

20 novembre 2017 Lascia un commento

In un  discorso ai laureati di Harvard di qualche tempo fa Jane K. Rowling (autrice di Harry Potter) affronta un argomento che lei stessa definisce “paradossale” per l’occasione e il luogo: il fallimento. Ora, chi si laurea da quell’università celebra un successo e viene da storie familiari di successo oppure nella cabala dei geni si è beccato una buona dotazione di intelligenza. Insomma, l’insuccesso non sembrerebbe esattamente di casa nell’ateneo più prestigioso del mondo. In molti le hanno detto/mandato a dire di farsi un giro nelle città colpite dalla crisi dell’industria automobilistica dove il suo discorso avrebbe avuto più pertinenza.

Non sono d’accordo. Credo che incoraggiare le persone a fallire ogni tanto sia importante perché la paura del fallimento è una camicia di forza. Lo hanno detto in molti, tra cui Arianna Huffington (si veda il post Fallire per avere successo), affermando che, se si vive troppo cautamente,  non si combina niente. Successo e fallimento sono due facce della stessa medaglia. Meglio rischiare dunque, uscire dalla comfort zone, provare cose nuove, commettere errori. Un concetto che non viene inculcato alle bambine e che si traduce, successivamente, in una paura e vergogna del fallimento superiore a quella degli uomini che mina la leadership femminile nelle fondamenta. Perché fallimento e leadership vanno a braccetto: non si diventa leader senza fallire.

Ma Rowling aggiunge a tutto questo una prospettiva interessante: una rivalutazione del fallimento come momento di “eliminazione di ciò che non è essenziale” . Rowling racconta che grazie al fallimento (era senza lavoro, senza soldi e nessuno voleva pubblicare i suoi libri) ha “smesso di fingere con se stessa di essere diversa da quello che era veramente” e ha “iniziato a dirigere tutta la propria energia nel finire l’unico lavoro che per lei contasse veramente“. In pratica, afferma che se avesse avuto successo in altre cose, non avrebbe trovato la determinazione di buttarsi con tutte le sue forze in ciò in cui credeva. Il fallimento può essere una benedizione (a blessing in disguise direbbero gli inglesi).

Insomma, scegliete la vostra motivazione, ma cercate di fallire ogni tanto. Come diceva Kipling nella famosa poesia “Se“, bisogna “saper perdere, e ricominciare di nuovo dal principio” per essere un vero uomo (e una vera donna, aggiungo io).

 

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Valutazione delle risorse, buona o cattiva medicina, dipende

13 novembre 2017 Lascia un commento

Valutare le risorse che gestiamo è uno dei compiti chiave del manager. Da lì partono infatti riconoscimenti, promozioni, opportunità e percorsi di sviluppo. Se permettiamo ai nostri pregiudizi inconsci di interferire, rischiamo di rendere le valutazioni una cattiva medicina. Purtroppo le buone intenzioni non bastano,  ed è utile conoscere gli errori che più frequentemente vengono commessi senza che ce ne rendiamo conto (ma purtroppo non senza conseguenze). Eccoli:

  • confronti distorcenti: come scegliamo il gruppo di confronto nel valutare una risorsa può fare una grande differenza. Senza rendercene conto, a volte è possibile confrontare una risorsa con i migliori, un’altra con la media e qualcun’altro ancora con la media bassa. Guardate l’immagine: i cerchi al centro appaiono diversi, ma sono identici. Il trucco sta nei cerchi che li circondano.
  • confronto con noi stessi: se come manager confrontiamo le risorse che valutiamo con noi stessi (e non con il gruppo di pari o con quanto richiesto dal ruolo) rischiamo di danneggiarne alcune (quelle meno simili a noi). Per esempio, se un manager uomo confronta se stesso a una collaboratrice donna, probabilmente troverà differenze nello stile di leadership e nel modo di relazionarsi.
  • proiezione: se come manager immaginiamo che gli altri abbiano le nostre stesse aspirazioni, preferenze e reazioni, trarremo conclusioni sbagliate su di loro. Per esempio, se un manager di 50 anni giudica una propria risorsa millennial poco interessata al proprio lavoro perché non desidera fare straordinari, rischia di sbagliare perché quella generazione tende a dare maggior peso all’equilibrio vita-lavoro.
  • effetto alone ed effetto diavolo: se nel valutare le risorse attribuiamo un grande peso a una caratteristica positiva che ci risulta molto gradita (per esempio l’intraprendenza o la capacità di presentarsi bene), facilmente questa ci fa dimenticare le altre (magari non così positive) perché attira tutta la nostra attenzione. Questo penalizza chi non ha la caratteristica e favorisce chi ce l’ha, riflettendo le nostre preferenze e impedendo a una valutazione equilibrata. L’effetto diavolo è l’opposto dell’effetto alone. In questo caso un “difetto” contagia la valutazione complessiva rendendola negativa. Se per esempio valuto positivamente l’estroversione, rischio di creare una squadra in cui gli introversi (magari risorse validissime) non riescono a fare carriera (e i migliori ci lasciano).
  • autoconvalida o pregiudizio di conferma: se nel valutare le nostre risorse giorno dopo giorno cerchiamo conferma delle nostre convinzioni iniziali (magari basate sull’impressione iniziale) sarà molto facile che la troviamo. Infatti, selezioneremo solo l’evidenza a supporto ella nostra tesi, mentre “nemmeno vedremo” quello che la smentisce. Così ci sembrerà di aver valutato la risorsa in molte situazioni, ma in realtà l’avremo valutata solo all’inizio.

 

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Giù la maschera: sei un pregiudizio di genere

6 novembre 2017 Lascia un commento

I pregiudizi  tendono a essere così diffusi che le stesse categorie danneggiate  spesso li condividono diventando “collusive”. Nessuna meraviglia che sia così: i pregiudizi, “inoculati” in tenerissima età, diventano indistinguibili dal mondo reale.

Per quanto riguarda le donne, per esempio, gli stereotipi di genere (con relativi pregiudizi) generano in loro stesse comportamenti auto-limitanti inconsapevoli. Ne cito alcuni che sono delle vere e proprie camicie di forza del genere femminile:

1) pregiudizi riguardo alle proprie attitudini, secondo cui sarebbero  più abili nelle soft skill  che nelle hard skill  (pensate a come ci condizionano nelle scelte di studio e lavoro);

2) pregiudizi riguardo all’assertività che, nella donna ma non nell’uomo, rischierebbe di essere eccessiva anche in dose omeopatica (pensate a quante donne non agiscono comportamenti assertivi ma tendono più verso quelli passivi con danni enormi per la loro carriera e per il loro equilibrio);

3) pregiudizi riguardo all’opportunità di chiedere, negoziare per se stesse e auto-candidarsi, comportamenti che sarebbero sintomatici di troppa ambizione, caratteristica premiata negli uomini ma condannata nelle donne (pensate a quanto invece è importante manifestare ambizione per essere anche solo prese in considerazione per le progressioni di carriera);

4) pregiudizi riguardo alle doti di leadership che le donne si riconoscono spesso meno di quanto riconoscano agli uomini. Anni fa stavo tenendo una serie di workshop sulla leadership. Constatai che, alla richiesta di citare leader che li avevano ispirati, i partecipanti uomini citavano uomini e le donne pure. Quasi che la massima espressione di leadership potesse essere solo maschile.

In molti siamo convinti che la difficoltà nel far avanzare la leadership femminile derivi in buona parte da pregiudizi impliciti (cioè non smascherati) che contagiano anche chi ne è vittima. La prima cosa da fare (è la più facile e produce risultati immediati) è quindi rendere le categorie oggetto di pregiudizi consapevoli dei condizionamenti ricevuti e aiutarle a metterli in discussione.

Nella mia esperienza, portare controesempi e far conoscere role-model che falsificano la credenza è particolarmente efficace. Quando ho capito come, purtroppo, gli esempi di leadership femminile fossero poco noti ho iniziato una pagina facebook intitolata Il talento delle Donne in cui inserisco tutti gli esempi di leadership, coraggio e assertività femminile che mi capitava di trovare. Vi assicuro che non mancano, la pagina ne ha svariate centinaia in tutti i campi, ma chissà perché pochi ne parlano.

Naturalmente bisogna anche agire su chi gestisce risorse e su tutta la popolazione organizzativa per combattere i pregiudizi. Su questo, è in arrivo un post.

 

 

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Non fidiamoci troppo del cervello, usiamo i dati

30 ottobre 2017 Lascia un commento

The unchallenged brain is not worth trusting dicono gli esperti di cognizione umana. Ma per contenere i danni dovuti ai pregiudizi inconsci a volte non basta sfidare le proprie convinzioni e decisioni. Fortunatamente, la scienza dei dati e le people analytics ci possono aiutare.

Il problema. Il nostro cervello riesce a processare una frazione piccolissima degli stimoli e delle informazioni che riceve dall’ambiente circostante ed è quindi abituato a filtrarli prendendone in considerazione solo alcuni. Quali sceglie di considerare e quali di scartare avviene spesso sulla base di pregiudizi inconsci, che non sappiamo di avere ma che ci condizionano. Quando il cervello prende delle “scorciatoie” cognitive, basate sull’intuizione più che sull’analisi della situazione, può commettere errori madornali, molti dei quali danneggiano la meritocrazia e portano a una sotto-ottimizzazione del talento organizzativo. Un esempio tipico è la cooptazione nel gruppo di leadership che spesso avviene anche (o principalmente) sulla base della “somiglianza” con la leadership attuale (si chiama affinity bias e si fonda sulla nostra preferenza per chi è simile a noi, tendenza che i sociologi chiamano omofilia). Chi è portatore di uno stile di leadership differente, come spesso avviene alle donne, per esempio, non è riconosciuto come leader.

Cosa fare per contrastare il problema. Serve un approccio che coinvolga le persone ma non si affidi completamente e solo ad esse:

  1. Dobbiamo acquisire l’abitudine di “sfidare” il nostro cervello chiedendogli di “rendere conto” del modo con cui è arrivato a una certa conclusione o con cui ha preso una decisione. Non sto parlando naturalmente di come scegliamo i gusti del cono gelato, ma di come selezioniamo, promuoviamo e diamo feed-back alle persone sul lavoro. Questo vuol dire aumentare la nostra consapevolezza e rallentare il nostro processo decisionale. Questa è una misura anti-efficienza che si applica alle decisioni importanti. La maggior parte di quelle che prendiamo sul lavoro e che impattano gli altri lo sono e meriterebbero più tempo e più mente razionale di quanto spesso dedichiamo.
  2. Dobbiamo ricorrere di più ai dati. I pregiudizi inconsci sono molto difficili da identificare perché sono “asintomatici” e perché quasi a nessuno piace ammettere di averne. Se non riusciamo a diagnosticarli, è difficile curarli e attuare misure per contenerli. Non tutti vengono esposti a corsi sui pregiudizi inconsci e a volte il corso non basta, soprattutto se il pregiudizio è radicato. Non possiamo fidarci solo dell’auto-disciplina. Per fortuna, esiste la possibilità di raccogliere e processare dati che possono servire da alert. Se un manager da sistematicamente valutazioni più basse alle donne che agli uomini, se gli aumenti e le promozioni alle donne sono sempre in misura inferiore a quelli che riserva agli uomini, per esempio, si potrebbe farglielo notare. Analogamente, se un manager assegna sempre i progetti strategici o manda a corsi su competenze chiave per lo sviluppo professionale una tipologia di persone (per esempio uomini tra i 30 e i 40 anni), si può cercare di capire insieme a lui/lei perché sia così. Ci sono buone probabilità che la persona non ne sia consapevole. Ma i numeri sono numeri e quando ce li mettono di fronte di solito ci fermiamo un attimo a ragionare.

 

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Le organizzazioni sono come la Oak School?

23 ottobre 2017 Lascia un commento

Le aspettative che abbiamo nei confronti delle persone influenzano la loro performance in modo subdolo, potente e noto da oltre 50 anni. Eppure, dai tempi lontani (1963) del famoso esperimento condotto alla Oak School dallo studioso di psicologia sociale Rosenthal, siamo riusciti a fare poco per controllare gli aspetti negativi fenomeno, nelle scuole, nelle famiglie e nelle organizzazioni.

L’esperimento alla Oak School. Rosenthal somministrò ad alcuni alunni, della scuola elementare Oak un test di intelligenza e promise di comunicare i risultati agli insegnanti. Poi selezionò, in modo casuale (senza tenere conto dell’esito del test) un gruppo pari al 20% dei  bambini e disse agli insegnanti che, sulla base del test, quelli erano i bambini più intelligenti. Lo scopo era capire se le aspettative degli insegnanti nei confronti degli alunni avessero una influenza sullo sviluppo cognitivo di questi. Quando ripassò nella scuola dopo un anno, i bambini appartenenti al gruppo dei “Più intelligenti”, seppur scelti casualmente, avevano confermato le previsioni ed erano diventati i migliori della classe. In breve, i bambini della categoria “più intelligenti” captavano, senza saperlo, segnali di interesse e approvazione che gli insegnanti stavano dando loro in modo inconsapevole e si comportavano di conseguenza. La profezia, pur priva di qualsiasi fondamento, si era avverata, senza che nessuno degli attori si rendesse conto di ciò che stava avvenendo. L’effetto Rosenthal, cioè il fenomeno per cui le persone tendono a conformarsi inconsapevolmente all’immagine che altri hanno di loro, è stato confermato da tutti gli esperimenti degli ultimi 50 anni in contesti molto differenti, tra cui quelli organizzativi.

Veniamo alle organizzazioni. Quello che è avvenuto alla Oak School ha inquietanti somiglianze con quello che avviene nelle nostre organizzazioni, solo che nel nostro caso non è un team di psicologi che ci trae in inganno, ma i nostri stessi pregiudizi, in particolare quelli inconsci. Spesso sottovalutiamo il danno che i pregiudizi possono fare anche in maniera indiretta, cioè quando, senza saperlo, le nostre aspettative traspaiono e vengono captate da chi ci circonda. Se per esempio un manager ritiene che le donne, per quanto valide professionalmente, siano meno propense a sacrificarsi per la carriera degli uomini o che abbiano meno capacità di prendere decisioni organizzative “dure ma necessarie”, non c’è bisogno che lo comunichi apertamente alle interessate (peraltro, a volte avviene anche questo, ma transeat). Purtroppo, bastano le aspettative trasmesse con il linguaggio non-verbale e para-verbale, che sono difficilissimi da controllare (es. occhi impercettibilmente rivolti al cielo, micro-sorrisini o micro-segnali di impazienza o disappunto o perplessità, tono lievemente compiacente o infastidito). Se qualcuno ritiene che un gruppo di persone sia più adatto di altri a prendere le redini di un’organizzazione (es. uomini meglio delle donne, adulti giovani meglio di adulti maturi, ecc.) tratterà i gruppi privilegiati come i bambini etichettati “più intelligenti degli altri” alla Rosenthal School, creando per gli altri uno svantaggio relativo. In poco tempo, le aspettative possono trasformarsi in realtà e rafforzare le nostre convinzioni di partenza (anche se erano sbagliate).

Cosa possono fare i gruppi con etichette meno positive o negative. La prima cosa è corazzarsi. Bisogna capire che le aspettative altrui possono essere infondate e non farsi condizionare troppo. Questo è particolarmente difficile all’inizio della carriera, ma non è mai facile. Un suggerimento è di “prendere l’antidoto“, cioè trovare persone (per esempio mentori, colleghi, ecc.) che credono in noi e ci incoraggiano. Avanzare nelle organizzazioni senza la carica delle aspettative positive è molto difficile, quindi è fondamentale avere figure di supporto se i nostri capi non svolgono quel ruolo.

Cosa possiamo fare tutti. 1) Sapere che abbiamo pregiudizi inconsci e quindi dobbiamo essere vigili, misurare le parole e il linguaggio del corpo. 2) Usare positivamente l’effetto Rosenthal. Dopo un anno, i bambini trattati da “più intelligenti” lo erano diventati davvero. Funziona. 3) se siamo coordinatori o capi, coltiviamo aspettative positive ed elevate in tutte le persone anche perché, come ha dimostrato James Sweeney, le aspettative positive sono funzione di ciò che pensiamo degli altri, ma anche di ciò che pensiamo della nostra capacità di farli apprendere e sviluppare.

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Il tempo per intervenire sulla leadership pipeline femminile

16 ottobre 2017 Lascia un commento

Per una volta mi vorrei soffermare non sul come ma sul quando intervenire per promuovere la leadership femminile. La risposta è chiara: subito, all’inizio della carriera. Spesso invece le organizzazioni assumono un atteggiamento “wait and see” (“vediamo se vuole lavorare o stare a casa con la famiglia”), affidandosi nel frattempo alla selezione “naturale” (che è tutto fuori che naturale),  per iniziare a interessarsi alle donne quando sono diventate manager. E’ un errore, ecco perché. 

L’immagine (tratta da Women In the Workplace, 2017) mette a confronto i generi maschile e femminile (separando persone di razza bianca e di colore) per quanto riguarda la presenza ai vari livelli organizzativi.

A livello entry (neo-laureati e neo-diplomati) la presenza di uomini e donne (della stessa razza) non è molto diversa, ma gli uomini sono un pò di più, anche se le donne sono il 60% circa dei laureati. Già dal livello successivo, quello del passaggio a manager, però, succede qualcosa di ancora più strano: gli uomini bianchi aumentano (da 36 a 47%), gli uomini di colore mantengono la posizione e le donne iniziano a diminuire (da 31 a 26% quelle di razza bianca e da 17 a 11% quelle di colore). Da questa iniziale diminuzione inizia la scivolata che porta, alla fine della pipeline, la presenza femminile a un 21% complessivo (18% donne bianche e 3% donne di colore) e quella maschile al 79% (67% per gli uomini bianchi, 12% per quelli di colore).

Numeri come questi gettano un’ombra sulla meritocrazia di cui tanto ci riempiamo la bocca e meriterebbero verifiche e indagini approfondite, ma il punto che voglio fare stavolta è un altro: la grossa fuoriuscita dalla leadership pipeline femminile si registra, come mostra l’immagine,  all’inizio della carriera, nel passaggio a manager, che avviene, tipicamente, entro i primi 6 anni. Si potrebbe dire che è proprio l’età in cui le donne….iniziano a pensare di avere figli. Appunto, lo pensano e basta, in molti casi. Abbiamo un bassissimo indice di natalità e facciamo i figli abbastanza tardi. Attribuire alla maternità questo rovesciamento di percentuali è semplicistico. Quello che è vero è che le donne sono penalizzate dalla prospettiva che potrebbero avere figli. Quello che è anche vero è che sui livelli entry di solito si vigila meno, non sono nello schermo radar. 

In conclusione, bisogna: 1) intervenire sulle donne appena entrate nelle organizzazioni (meglio ancora prima) spiegando loro l’effetto degli stereotipi e facendo empowerment presto 2) bisogna vigilare sulle discriminazioni nelle valutazioni e promozioni anche a livelli organizzativi bassi che di solito sono meno attenzionati. Se si interviene dopo, si interviene troppo tardi.

 

 

 

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  • Odile Robotti

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